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2017 – Luca Pietro Nicoletti – Franco Vasconi e la Nuova Figurazione

Per affrontare lo sviluppo dell’opera di Franco Vasconi (1920-2014) bisogna partire da una piccola monografia del 1991 uscita per le edizioni GR in concomitanza col settantesimo compleanno dell’artista, in cui Franco Cajani, accanto a un commosso e partecipato testo di Alberico Sala, affronta in un denso e documentato contributo l’evoluzione dello stile di pari passo con le letture che la critica ne ha di volta in volta offerto. Quel libro ha un valore particolare, soprattutto, perché fissa un canone di opere capitali per leggere gli snodi di quel percorso, sia nei suoi momenti di più brusco e rapido mutamento sia nel lento perfezionarsi di una marca stilistica fedele a se stessa ma dentro la quale avviene una sottile metamorfosi di progressiva complicazione del quadro e dei suoi termini compositivi.

Ciò che infatti risulta più difficile è proprio trovare una collocazione precisa a un lavoro così leggibile nei termini della pittura ma altrettanto sfuggente rispetto alle logiche di una temperie culturale che pure ha consapevolmente vissuto.

Vasconi, infatti, è protagonista di un contesto preciso del sistema artistico milanese in cui la geografia di gallerie connota un certo profilo non solo di stile quanto di gusto e di collezionismo. Entro il capoluogo lombardo, dove stabilisce la propria dimora nel 1958, pur avendo qui in precedenza compiuto il proprio percorso formativo, egli gravita a lungo intorno alla galleria di Renzo Cortina, e parte della critica che si occupa di lui è proprio quella, specie fra la fine dei Sessanta e tutti gli anni Ottanta, che è di casa presso la Libreria Internazionale Cavour e il relativo spazio espositivo: Franco Passoni, Roberto Sanesi che proprio negli anni Settanta scrive ripetutamente per la galleria, mentre dalle colonne del “Corriere della Sera” anche Dino Buzzati segnala il suo lavoro.

È qui, per esempio, che lo ricorda Stefano Cortina, figlio di Renzo e a sua volta gallerista, in un affettuoso testo del 2015 per una personale tenutasi a Parigi e nella sua galleria di Milano: «il passo deciso e svelto, il trench abbottonato, la canuta chioma al vento, lo sguardo sempre attento e curioso, in quel volto marchiato da un naso da pugile, tagliato via come la creta rimossa da un ritratto e mai più ripristinato. Un volto di grande carattere per un uomo nato pittore. E temibile raccontatore, un fiume in piena di aneddoti, ricordi, pensieri. Memoria storica e vivente della grande stagione dell’arte italiana dal post futurismo al contemporaneo» (Franco Vasconi. La force de la lumière / Luce dinamica, a cura di Stefano Cortina e Nicolas Rostkowsky, Parigi-Milano 2015).

Nella linea della galleria Cortina, il lavoro di Vasconi poteva costituire un anello di continuità tra una figurazione congeniale a certo collezionismo borghese del Boom economico, ma con una spinta di aggiornamento verso le istanze di una generazione più giovane.

Correttamente, infatti, Cajani titolava il suo libro del 1991 a La nuova figurazione di Vasconi, identificando l’ambito di appartenenza della sua pittura a una compagine di artisti più giovani di lui, quasi tutti usciti dalla scuola di Aldo Carpi a Brera e impegnati in un rinnovamento delle nozioni visive fondato su un modo nuovo di intendere le relazioni tra figura, spazio e racconto, col desiderio di aderire ai ritmi e ai problemi esistenziali del proprio tempo. Rispetto a quel contesto, tuttavia, l’esperienza di Vasconi è eccentrica sia sul piano del linguaggio sia su quello della cronologia, con le conseguenti ricadute dal punto di vista dei contenuti visivi e iconologici.

Vasconi, infatti, nasce a  Spigno Monferrato nel 1920: è coetaneo di Franco Francese, ha quattro anni più di Giansisto Gasparini, dieci più di Bepi Romagnoni, Mino Ceretti e Giancarlo Cazzaniga, otto meno di Ennio Morlotti. Ciò che questo comporta in rapporto agli avvicendamenti storici è facilmente intuibile: ha l’età per essere chiamato alle armi, diversamente dalla maggior parte dei cosiddetti “realisti esistenziali”, e ha quasi cinquant’anni quando scoppia la contestazione. Prima ancora, quando la Biennale di Venezia consacra la Pop Art nel 1964, egli ha già un percorso chiaro e quell’esperienza non lo riguarda. Piuttosto, in quello stesso giro di anni, poteva essere per lui più importante il momento di riscoperta del Futurismo e delle sue declinazioni fra le due guerre, a cui una serie di mostre conferiscono in quel periodo nuovo risalto dopo momentaneo oblio.

Già da questi rilievi, dunque, emerge come il percorso di Franco Vasconi vada letto entro coordinate proprie, inattuali se si vuole rispetto alle mode del tempo ma fedele a un proprio discorso capace di non trascurabili declinazioni monumentali, dalla pittura murale (specie per gli spazi della liturgia) alla scenografia teatrale.

Che le sue radici fossero da reperire altrove lo dimostra un grande dipinto del 1945, con cui si apre la monografia del 1991 e più volte esposta. La Preghiera, infatti, è una tela di grandi dimensioni, tutta immersa nel clima lombardo di secondo Ottocento, entro una figurazione di solido disegno e di materia consistente. Vi si vedono tre uomini di età differenti (forse da intendersi in senso allegorico) inginocchiati in preghiera, forse durante una celebrazione. Che fosse programmaticamente un quadro importante sta a indicarlo lo stesso formato di ragguardevoli dimensioni per un artista di venticinque anni, e dedicato a un tema feriale tutt’altro che celebrativo: un quadro, se si vuole, destinato a offrire una prova della propria abilità nella raffigurazione della figura umana in atteggiamenti naturali e variati, frutto probabilmente di studi dal vero, inserite dentro uno spazio solenne e di ampia apertura in profondità, come suggerisce il punto di vista rialzato e ravvicinato, angolato in modo da provocare un’accelerazione prospettica verso la navata laterale in secondo piano.

È chiaro che in questa fase della vita di Vasconi il punto di riferimento è quella tradizione di pittura fra le due guerre che aveva fatto i conti a distanza con la pittura del Seicento, riscoperta con qualche sussulto alla grande mostra fiorentina del 1922, e con i modi dell’Impressionismo, dandone una versione “verista” fatta di toni crudi e terrosi, di impasti densi e pennellata rapida che velocemente tratteggia i volumi del volto e dei panneggi. Ma questo è un punto di passaggio, un’eredità che egli ha raccolto durante gli studi presso la Scuola d’Arte Beato Angelico di Milano sotto la guida di monsignor Giuseppe Polvara, prima di approdare alla scuola degli artefici di Brera: un’esperienza che Vasconi deve aver tenuto sempre ben presente, e da cui deve aver desunto quei moduli della pittura monumentale che costellano la sua carriera e gli hanno dato, oltre al mestiere, una solidità nel modo di intendere la figura umana che avrebbe saputo sapientemente dosare nel prosieguo del suo percorso.

L’artista stesso, in un’intervista a Delnatta del 5 aprile 1973 (parzialmente ripubblicata nella monografia del 1991), dichiarava: «Ho iniziato con una pittura post-impressionista, molto pulita e chiara. L’intenzione allora si limitava alla rappresentazione della realtà e quindi la mia pittura si adeguava a questi intendimenti, nonostante ci fossero già alcuni accenni personali».

Non è di poco conto, per altro, tenere presente che lungo tutta la sua vita, anche quando la pittura diventerà più liquida e di stesura sottile, non mancherà di cimentarsi periodicamente con il ritratto e con l’autoritratto, creando una galleria in cui oltre allo scorrere degli anni si avverte l’evoluzione dello stile, la metamorfosi della tavolozza, ma anche la persistenza di una curiosità fisionomica e verso gli effetti di luce e ombra proiettati sul volto. È qui, oltretutto, che in certi casi Vasconi tradisce i propri modelli di riferimento: un piccolo autoritratto del 1944, pubblicato sempre da Cajani (con l’errata datazione al 1947), mostra per esempio un fugace punto di contatto con gli autoritratti di Giorgio De Chirico, già entrato nella propria fase di riscoperta del Seicento e totalmente immerso nel ruolo di difensore del mestiere della buona pittura. Quello che tuttavia conta maggiormente di questa stagione di Vasconi è l’attenzione che l’artista appunta sui dati luminosi, su una sintesi quasi tagliente delle alte luci date con pochi e mirati tocchi di pennello di tutta evidenza che dichiarano la pastosità del colore.

Sarebbe seguita una breve e non precoce stagione di naturalismo, complice l’amicizia e la frequentazione con Ennio Morlotti, il primo a scrivere di lui presentando la sua prima mostra personale a Gallarate, nel 1947, e la seconda, una decina di anni più tardi, dichiarando apertamente il proprio stupore per la capacità di rinnovamento dimostrata dal giovane pittore, che nel frattempo aveva adottato i modi del “naturalismo”, cioè una pittura pastosa che pur non facendo il salto nell’Informale puntava a una restituzione di vegetazioni e motivi arborei per sola giustapposizione di zone tonali e di pennellate spesse e filamentose.

Sarebbe passato pochissimo, però, perché Vasconi trovasse altrove la propria strada. Sempre nell’intervista del 1973, infatti, dichiarava che era stato il 1961 l’anno di svolta: ad impressionarlo, inaspettatamente, oltre a Morlotti, erano stati Fontana e soprattutto Burri. Da lì era partito un percorso di revisione, cercando, racconta l’artista, «di scoprire nella natura quelle forme che evocassero la realtà. In altre parole, in una roccia, in uno scoglio, in un sasso, in uno straccio, si possono vedere forme che trascendono l’oggetto e che solo l’invenzione è capace di farle vivere in modo significante». La radice del cambiamento, dunque, era stata nell’osservazione delle cose, o meglio nell’aver scoperto che gli oggetti, visti sotto un’angolazione particolare, potevano rivelare nuove forme: l’idea della roccia e dello scoglio, ma anche del tessuto stropicciato, riletti a distanza, sembrano infatti una chiave per entrare in quella pittura fatta di anatomie scomposte, di piani dai contorni frastagliati che si intersecano in una composizione complessa fatta di compenetrazioni e di attraversamenti delle forme.

A questo  esito, però, l’artista arriva per gradi. In prima battuta, uno snodo importante si riconosce in un quadro di attualità del 1961 dedicato a un Astronauta, le cui fonti iconografiche saranno da rintracciare probabilmente nella pubblicistica da rotocalco dell’epoca, impressionata dalla missione nello spazio di Jurij Gagarin del 12 aprile 1961: lo spazio, al di là delle utopie degli Spazialisti negli anni Cinquanta, entrava fisicamente nell’immaginario collettivo e gli artisti non potevano rimanervi estranei. Credo sia su questo punto che scatta qualcosa: una realtà nuova aveva bisogno di un suo lessico, non poteva essere raffigurata con gli stessi strumenti del realismo se non scadendo nella cronaca illustrata, e la via di elaborazione di questa nuova iconografia per Vasconi si presenta tornando a guardare i futuristi, che non molto tempo prima erano stati oggetto di una nuova attenzione critica, dai pittori astratti che in Balla avevano riconosciuto un maestro elettivo a Guido Ballo che nelle aule di Brera insegnava, sulla scorta di Lucio Fontana, a capire la lezione di Umberto Boccioni fino a Enrico Crispolti che, prima delle grandi mostre su Balla e sui futuristi torinesi all’inizio degli anni Sessanta stava già elaborando la sua ricostruzione storica della stagione futurista post-boccioniana. Non è azzardato, a mio modo di vedere, riconoscere lì la radice di una maniera scheggiata, un po’ stropicciata ma come di materia rocciosa di restituire la muta dell’astronauta, con profili evidenti contornati da una bordura di alte luci. Siamo ancora di fronte a una figura solida, di volumi compatti memore di certa pittura aerofuturista (Tullio Crali in particolare), ma con una inquietudine di chiaroscuro che già stava portando quel modo di dipingere verso una declinazione drammatica, verso una tensione visionaria memore dei meandri oscuri dell’animo umano che lo portava a visualizzare le sue inquietudini e i suoi timori.

Non a caso, sulle colonne de “l’Unità” Mario De Micheli, nel febbraio 1961, affermava che «Vasconi è un pittore allusivo, in parte surrealista, in parte naturalista. I suoi quadri sono dominati da un moto in cui gli elementi che li compongono, si compenetrano, si fondono: rupi e membra umane, cielo e terra. Una tecnica raffinata, “antica”, presiede alla loro esecuzione. I verdi sfumati, gli azzurri sfumati costituiscono i colori dominanti. Come un franare silenzioso, le sue tele appaiono ingombre di forme viventi, dove anche l’emozione del pittore vive sommersa».

Non passano infatti molti anni prima che Vasconi affronti, intorno al 1966, il tema della Crocifissione e, contemporaneamente, quello del martirio, a cui dedica anche alcune sculture in cotto e in bronzo. Tolta dagli altari, la Croce era l’emblema della sofferenza umana più tragica, dell’aggressione più feroce verso i deboli e gli oppressi: qualcosa che gli artisti usciti dalla guerra, sia da soldati sia da civili, difficilmente avrebbero dimenticato, e che anzi riaffiora continuamente, oltre che in opere espressamente dedicate al conflitto, anche nell’iconografia sacra. Già in tempo di guerra, del resto, non era stato infrequente che il tema della Crocifissione fosse diventato un’icona civile di denuncia contro nuovi aggressori e nuovi aguzzini del presente. Le Crocifissioni di Vasconi vanno viste su questo sfondo, che aiuta a spiegare come quella modalità inventiva che pochi anni prima poteva apparire di radice futurista abbia assunto una svolta fondamentale. In cinque anni, del resto, c’era stata una accelerazione degli eventi tale che gli assetti dei gruppi, dei movimenti artistici, delle tendenze di poetica e persino la geografia delle gallerie si era trasformata radicalmente. La morte improvvisa e prematura di Romagnoni nel 1964, per esempio, aveva creato un momento di smarrimento dentro quel gruppo di ex “realisti esistenziali” a cui Emilio Tadini aveva attribuito l’etichetta di pittura di “nuovo racconto”, che proprio all’inizio degli anni Sessanta si erano chiesti per quale via portare sulla tela quel bombardamento di immagini che arrivava dai media, dal cinema come dal rotocalco. Per alcuni questo significherà portare all’estremo le ricerche intraprese allora, ma per molti altri la metà degli anni Sessanta aveva significato una chiusura nei confronti del contesto per portare avanti, nel silenzio del proprio studio, una ricerca autonoma. Per molti aveva significato un ritorno alla pura pittura, abolendo qualsiasi inserimento di elementi extrapittorici. Per chi, come Vasconi, era sempre rimasto fedele alla pittura in quanto fatto di percezione retinica fondato sul disegno e sul colore, invece, si trattava di proseguire una ricerca già avviata, modulando i modi del realismo con una nuova visione (una nuova figurazione appunto): domande tutto sommato analoghe a quelle che nello stesso giro di anni si stava ponendo, sul fronte romano, un pittore come Renzo Vespignani. Per entrambi la via della nuova figurazione passava per un disegno graffiante, che aggrediva la realtà e ne faceva emergere il lato più crudo e schietto, in cui la pittura è attaccata alla pelle umana. Per Vasconi, poi, significava sezionare l’anatomia in porzioni, come brandelli pronti a sfaldarsi, ma delimitati da ombre e luci marcate, quasi metalliche: più che una sensibilità epidermica, Vasconi sviluppa infatti una senso plastico e disegnativo della pittura, e tale rimarrà anche quando la tavolozza di schiarirà su toni più squillanti e solari.

La soglia del Surrealismo, da intendersi nell’accezione di creazione di immagini irreali ma scevre da qualsiasi forma di automatismo, era molto prossima: del resto, non molto distante, un altro pittore seguito da Renzo Cortina, il mantovano Lanfranco, oltretutto coetaneo di Vasconi, stava pensando a una pittura in cui lo spazio era diviso in porzioni come brandelli pronti a separarsi fra loro: la figura, insomma, comincia a ritagliarsi una concretezza di immagine su uno sfondo dai contorni incerti, ma solcato di frammenti circoscritti e scheggiati. E non di rado è proprio la fusione fra i due a creare un momento di integrazione fra figura e atmosfera che riporta al padre nobile del futurismo, ovvero al Boccioni di grandi dipinti come Materia della collezione Mattioli. Nasceva qui quella che Alberico Sala, nel 1991, con felice metafora definiva una pittura «cellulare, parcellizzata, scomposta e ricomposta in un ordine prismatico».

Sembra un po’ più esteriore, a confronto con questo modello, il più generico riferimento più volte avanzato dalla critica con le carte stropicciate e i frottage di Corrado Cagli. Eppure quella comparazione era un modo per inserire l’artista nelle coordinate del suo tempo, alla ricerca sia di addentellati con la cultura figurativa sia, soprattutto, con la cultura in generale. È dalla fine degli anni Sessanta, quando Vasconi è prossimo a compiere i cinquant’anni, che la critica sul suo conto si infittisce particolarmente, e da qui vale la pena di attingere per delineare il prosieguo del suo percorso.

Nel 1970, ad esempio, Franco Passoni presenta la mostra della Galleria d’Arte Cavour (20-31 gennaio), con una nota intitolata Lo stimolo psichico nei dipinti di Franco Vasconi. Dopo un lungo preambolo sulla pittura che cerca di immergersi “in profondità” nelle cose, che non si limita a uno sguardo superficiale come poteva essere quello della “pop art” o della “mec art”, ma che andasse più a fondo in uno spazio onirico e soprattutto nel definire i rapporti fra forma, immagine e sua “apertura”: non una forma data una volta per tutte, insomma, ma che si prestasse a sguardi prolungati capaci di rivelare di volta in volta aspetti particolari. In questa prospettiva, «Vasconi sembra aver recepito nelle motivazioni profonde della sua pittura, le immagini segrete d’una cultura poetica che pone a confronto le forme antropomorfiche a quelle vegetali e minerali, con una fantasia che conserva una verità che è incompatibile con la ragione». Ne conseguiva una «sintesi analitica delle immagini simultanee e multiple, mediate plasticamente e cromaticamente in uno spazio visionario che appartiene all’uomo e alla sua immaginazione esclusiva: una realtà più occulta, più segreta, però non meno importante dell’altra».

La visione di Vasconi, infatti, si era molto complicata: la tavolozza si era schiarita, dando spazio a toni timbrici più vivi, fondati sugli accordi del magenta e del blu (poi dell’azzurro) con contrappunti dei gialli e delle ocre, con figure via via più intricate avvinte in un moto ascendente ma completamente fuse con lo spazio circostante. Stava maturando d’altra parte nel gergo critico l’idea di una figura “intricata”, la cui percezione era possibile solo dopo uno sguardo prolungato sulle opere, tale da permettere un progressivo affiorare dell’immagine stessa: in quello che in prima istanza poteva apparire semplicemente come un groviglio, insomma, poco alla volta si sarebbero chiariti i contorni, cominciando ad emergere le singole figure e le loro relazioni reciproche dentro uno spazio che nel giro di poco tempo si sarebbe configurato come una scatola prospettica di carattere architettonico, come sfondo in cui si metteva in scena un dramma di tensioni esistenziali che condurranno ai quadri sul tema dell’evasione

Non a caso, infatti, Raffaele De Grada, nel 1972, sottolineava con acume che con una «materia liquida e trasparente che fa pensare all’acquarello e a carte imbevute di colore e sovrapposte che stampano la loro immagine, Vasconi sa imprimere un senso di atmosfera fluida dalla quale tuttavia l’immagine emerge con la graduale consistenza di un ectoplasma mediatico, concretandosi in una visione figurativa ben precisa e descrittiva della condizione dell’uomo». In poche righe, De Grada metteva in effetti a fuoco alcuni punti importanti. Da una parte proponeva una giustificazione di una figurazione così rarefatta, coniando la definizione di “ectoplasma mediatico” per distogliere l’attenzione da letture in chiave onirica. Dall’altra, invece, è il primo a interrogarsi sul rapporto di Vasconi con quella generazione di nuova figurazione. Non a caso, infatti, al termine “figurazione” preferisce il termine “figurale”, riconoscendo qui il punto di contatto, procedurale almeno, con l’informale, sebbene questo implicasse un qualche rapporto fra il suo lavoro e certe pratiche di automatismo artistico: «dell’informale a lui è rimasto il farsi nell’atto stesso del creare, diversamente dalla costruzione col disegno e poi la modificazione sulla tela che è propria dei pittori razionalisti (per esempio di tutto il Novecento). Perciò anche il soggetto, il tema del dipinto è più importante per ciò che suggerisce che per ciò che descrive nonostante che Vasconi voglia essere più che può preciso e figurale».

Ma il critico che segue con maggior continuità Vasconi in questi anni è il poeta, anglista e traduttore di letteratura Roberto Sanesi, che nel decennio precedente era stato, insieme ad Emilio Tadini, uno dei critici più vicini ai fenomeni di nuova figurazione e di nuovo racconto, protagonista critico nel 1960 di Possibilità di relazione, la prima mostra con cui un giovanissimo Enrico Crispolti cercava di mettere ordine in un fenomeno artistico in evoluzione ma pieno di sollecitazioni. Vasconi non sarebbe potuto rientrare nei canoni di quella mostra, ma è comunque un precedente da tenere presente per capire la traiettoria critica da cui Sanesi arriva, negli anni Settanta e Ottanta, ad occuparsi a più riprese del suo lavoro.

Il suo primo testo sul pittore, sfuggito alla bibliografia generale degli scritti di Sanesi, risale al 1973. Il poeta rileva soprattutto il valore della luce all’interno del lavoro di Vasconi, a cui riconosce una radice surreale e visionaria, ma di una visionarietà che rimonta alla poesia di William Blake e allo Zarathustra di Nietzsche, ma soprattutto i suoi sono «corpi umani si torcono, si dilatano, si smembrano, si incrociano e si confondono con gli elementi naturali che li circondano, li alludono, perdono la loro fisionomia di personaggi perché se ne accentui la dinamica e ne emergano i valori plastici. È la luce che delimita e dà peso alle masse. Anatomia umana, di natura non separata. E i valori plastici tendono a farsi simbolici di una situazione, o di una condizione. Il “luogo” degli accadimenti sfugge».

Ritorna a parlare di lui due anni più tardi, per la personale presso la Galleria d’Arte Radice di Lissone (12 aprile-2 maggio 1975), ribadendo la sua preferenza per quelle opere in cui la figurazione è più aperta, con contorni meno definiti in cui sia più marcata una certa ambiguità di «difficile definizione, tenuta tra l’uno e l’altro versante del vero e del falso, concreta e sfuggente». Più difficile da definire, invece, l’accezione in cui Sanesi intende il termine “simbolo”, molto usato anche nei coevi testi dedicati alla pittura di Emilio Scanavino, ma in quel caso letto in chiave etno-antropologica. Qui, probabilmente, Sanesi intende che la rappresentazione di Vasconi è sempre simbolica per il fatto di aver optato per una raffigurazione traslata della realtà, nell’aver fatto della figura umana, così smaterializzata ed evanescente, una metafora della condizione umana. Un simbolo incerto dunque, ma «acquista più segrete risonanze, così come la luce, che prima delimitava o disegnava le masse per accentuarne l’autonomia da quello che avrebbe potuto essere definito il luogo degli avvenimenti, torna ad entrare nel meccanismo in modo diretto, essendone ormai componente essenziale».

Il discorso però si chiarisce in un altro testo del 1981, questa volta per un piccolo libro dedicato a I cavalli di Vasconi (Ghelfi edizioni, 1981), tutto concentrato su uno dei temi portanti della sua ricerca pittorica. Già da tempo Vasconi aveva scelto il cavallo come principale icona del suo lavoro, tanto da guadagnarsi la fama di pittore “dei cavalli”, facendo in parte dimenticare il lavoro degli anni precedenti. Qui, come si accorge bene il critico, il lavoro dell’artista sta subendo una ulteriore metamorfosi, semplificandosi e chiarendosi nella trama: la figura acquista una nuova solidità, «il disegno prende il sopravvento sul colore, e quel gioco di mimesi che sgretolando ogni immagine parziale giungeva alla composizione di un’unità mobile, a una sorta di scambio mai bloccato fra gli oggetti e il luogo degli oggetti, lo spazio, che si faceva a sua volta oggetto, un continuum di forze, appare come allentato». A questo cambio, secondo Sanesi, deve aver contribuito il parallelo interesse di Vasconi per la scultura: i suoi cavalli, che un giorno forse andranno messi a confronto con quelli di Francesco Messina, erano il soggetto privilegiato di una serie di piccoli bronzi che li ritraevano in tutti i possibili atteggiamenti, dalla corsa alla caduta a momenti di riposo. Per quanto non sia possibile un rapporto diretto fra figura dipinta e figura scolpita, è indubbio che quel complicato intrico, tutto giocato sugli effetti del colore, non era traducibile sulla terza dimensione, inducendo il critico a pensare che quella esperienza avesse avuto una ricaduta nel modo di raffigurare i cavalli dipinti. Era inevitabile, oltretutto, che l’approdo al tema del cavallo richiamasse in causa nuovamente il modello boccioniano, per quanto l’affinità iconografica non avesse poi riscontri più puntuali da un punto di vista formale. Ma il punto fondamentale che Sanesi mette a fuoco in questa occasione è che il lavoro di Vasconi procedeva per affollamento, sovrapposizione e torsione plastica di elementi smembrati e ricomposti secondo delle linee metamorfiche, come a voler ritrarre una trasformazione in atto, ma soprattutto concentrando l’attenzione su alcuni fulcri di energia. Il suo sistema di immagini, insomma, ruotava attorno ad alcuni punti che facevano da punto di accentramento, come se da lì dovesse poi avvenire una deflagrazione, o per contro come se l’immagine andasse a definirsi intorno a un nodo gravitazionale capace di attrarre da quello spazio le singole membra in una figura coerente e tesa. Arrivati alla stagione dei cavalli, però, questa era diventata una formula per un tessuto connettivo più chiaro e leggibile. Da un punto di vista iconografico, tuttavia, questa maggiore compattezza figurale andava a concentrarsi su un tema che, nelle mitologie moderne, assumeva un ruolo simbolico: «isolata da ogni altra immagine la “figura” cavallo, già di per sé così ricca di implicazioni simboliche oltre che formalmente fra le più adatte a convogliare visivamente, fisicamente, quel senso di energia trattenuta, e pronta a esplodere, che è appunto il tema reale della pittura di Vasconi qualunque sia il soggetto che l’artista volta a volta sceglie per comunicarlo, era inevitabile che tendesse ad emergere con prepotenza descrittiva. Non che nelle intenzioni non si tratti, ancora, di un tentativo di convogliare una metafora di vitalismo – tant’è vero che anche in alcune delle opere più recenti le linee di forza mostrano di convergere (per poi divergere, sfaccettandosi, verso i limiti del quadro e, idealmente, oltre) in un punto preciso, per addensarsi quasi sempre al centro; né si può dire che nella ricerca di una maggiore chiarezza delle masse, di una più esplicita riconoscibilità del soggetto sia andata perduta la connotazione fantastica, l’inquieta riverberazione di tipo “espressionistico” di una imagery che appare quasi sempre, e tuttora, come accerchiata dallo sguardo dell’artista – ché anzi, soprattutto nei disegni (dove la struttura compositiva è rilevata dall’incisività del tratto) e nelle sculture (dove la materia, opponendosi, mostra più profondamente gli sforzi dello scavo), l’implicita drammaticità di tante opere di Vasconi viene qui messa in luce come tematica fondamentale. Rispetto alle risoluzioni precedenti ciò che è cambiato e forse solo il punto di vista, che se prima tratteneva il soggetto a distanza (dallo spettatore come dagli spazi di natura che gli facevano da quinta) e più volentieri caso mai lo spingeva contro lo spazio quasi teatralmente predisposto da una sapiente regia allo scopo di tradurre il tutto in una frenetica accumulazione, ora tende invece a portare il soggetto in primo piano».

L’approdo negli anni Ottanta e lo sviluppo successivo nei Novanta e nel nuovo millennio aveva portato uno spirito arcadico nel suo lavoro. Quel “simbolo” così inquieto, come si evince bene dal testo di Sanesi, aveva ora assunto una connotazione idillica o trascendente. La composizione si fa più distesa e più leggibile e il quadro sembra più un’apparizione che un campo di scontro tra forze contrastanti. È il periodo in cui sempre più Vasconi si concentra su un tema iconografico che lo renderà famoso, i cavalli appunto, ma soprattutto ha codificato uno stile versatile, capace di declinazioni illustrative o decorative, ma soprattutto adatto al gusto di un certo collezionismo, che ne decreta una grande fortuna. Vasconi è infatti fra i pochi, della sua generazione e delle successive, ad aver potuto fare esclusivamente il pittore. Era dunque comprensibile che nella fenomenologia del suo lavoro entrassero tutte le dinamiche tipiche del lavoro su committenza. È il momento di maggiore concessione da parte sua alle lusinghe dell’illustrazione, come si vede bene nel ciclo di quadri dedicati alle auto Ferrari, ma questo è un indizio che serve a mostrare la versatilità di una maniera espressiva capace di cambiare registro senza perdere di efficacia e di riconoscibilità. Al contempo era la strada più adatta per la progettazione di interventi di pittura murale sia per spazi pubblici sia, soprattutto, per luoghi di culto.

Già negli anni Settanta, in verità, Vasconi aveva realizzato interventi di questo genere, a partire da una Crocefissione ad affresco per la parrocchiale di Roe Sedico nel 1975, seguita l’anno successivo da un altro affresco, questa volta di tema civile: un Omaggio alla Libertà per la Città di Seregno. Che fra le due opere potesse esservi una continuità logica e iconografica è facilmente intuibile, per via di quello slittamento iconografico che connota quel momento e quei temi. Ma la svolta avviene fra anni Ottanta e Novanta, a partire dal grande pannello per il palazzo del principe Bandar a Ryadh, in Arabia Saudita, del 1983: un branco di bianchi cavalli irrompe in primo piano da un dirupo scosceso, investita da una luce abbagliante che crea un’atmosfera trascendente. Ma è soprattutto nello spazio liturgico che l’opera di Vasconi trova una sua collocazione naturale. Per la chiesa del Rosario di Milano, nel 1994, disegna i cartoni per un grande Battesimo di Cristo a mosaico: una vera e propria pala d’altare che doveva armonizzarsi con l’edificio, suggerendo una via per il reinserimento dell’arte moderna nelle chiese. Una via mediana, se si vuole, capace di avvicinarsi a tecniche della tradizione della decorazione muraria e di rimodularle secondo un linguaggio rinnovato che non vuole tuttavia rompere definitivamente con il passato. La visione ravvicinata dei grandi cartoni a tempera di quell’impresa, infatti, mostra in maniera evidente i debiti verso la lezione della grande pittura del Cinquecento, specialmente nel gruppo di giovani astanti sulla sinistra, discese direttamente, per posa serpentinata e lineamenti solidi e armonici, dalla Vergine del Giudizio Universale della Cappella Sistina. Del resto l’artista stesso aveva più volte fatto un uso dichiarato di fonti della tradizione pittorica rinascimentale, compresi alcuni espliciti omaggi al classicismo michelangiolesco. Era dunque inevitabile che nel momento di misurarsi con il tema sacro, specialmente per iconografie narrative espressamente destinate a sedi ecclesiastiche, Vasconi facesse ricorso a quel repertorio di forme e modelli, da immergere poi in ambienti strutturati secondo la propria tavolozza e il proprio lessico della rappresentazione spaziale.

Nei confronti dello spazio, dunque, Vasconi punta a un inserimento armonico della scena dipinta entro una cornice architettonica, puntando a un’immagine di impatto ma senza sovrastare l’insieme. L’intervento, insomma, resta nelle dimensioni del quadro. C’è tuttavia almeno un caso in cui l’artista si trova a fare i conti con un intervento di maggiore estensione, che coinvolge quasi per intero lo spazio interno dell’edificio: si tratta della volta e del soffitto dell’Oratorio di San Giuseppe a Vailate, un piccolo ambiente quattrocentesco che era stato oggetto di spoliazioni durante i secoli, e che l’intervento ad affresco di Vasconi risemantizza nella percezione dello spazio. L’impostazione è quella consueta: i partiti architettonici diventano altrettanti luoghi per alloggiare singole rappresentazioni, dalla Trinità nella cupola agli evangelisti disposti nelle vele. Si trattava, come ebbe a scrivere Alberico Sala nel 1991, con una felice definizione che ben si presta a riassumere tutto il senso dell’opera di Vasconi, dello «spartito di una polifonia remota e freschissima; come le pagine di un libro spogliato dal tempo, che aspettava di essere riscritto ed illustrato con le storie della vita dell’Uomo, nella gloria dei cieli e nell’esperienza dolorosa della terra».

 

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