1991 – Franco Cajani – La nuova figurazione di Vasconi
«Sono trascorsi quasi trent’anni da quando Ennio Morlotti, presentando nel 1961 le figure nascoste di Vasconi, per la prima volta in mostra alla Galleria delle Ore a Milano, ipotizzò alterne possibilità nella genesi di tale figurazione, volendo a tutti i costi ritrovare un meccanismo concettuale che scaturisse dall’antica logica consequenziale del melo che dà le mele». Così Piero Rombi iniziava il testo di presentazione dell’ultima mostra personale che Vasconi ha allestito nel capoluogo piemontese per festeggiare il suo settantesimo genetliaco. Franco Vasconi, nato nel 1920 a Spigno Monferrato, una località in provincia di Alessandria, si è distinto nelle arti plastiche in modo poliedrico e la critica ufficiale lo considera tra gli artisti contemporanei più significativi.
Parlando di Franco Vasconi non si può fare a meno di citare il grande maestro lombardo Ennio Morlotti che con lui «spartì alcuni mesi interi davanti ai cavalletti di una scuola». Una postilla che non figura in nessuna nota biografica dei due artisti ma che esprime la serietà della loro preparazione.
Infatti Vasconi nell’anno scolastico 1933-34 frequentò la Scuola d’Arte Superiore Cristiana Beato Angelico di Milano con l’architetto monsignor Giuseppe Polvara e il pittore don Mario Tantardini prima di passare nel 1936 al Liceo Artistico di Brera con Steffenini e Carpi.
Morlotti ritrovandolo nel 1957 anche se «ci fu un sacco di tali storie da cambiar anima e corpo» affermò di essere stato molto sorpreso «di ritrovare lui ed i suoi quadri, tali e quali come allora».
Morlotti disquisendo ebbe a dire che «la tensione necessaria perché scaturisca una propria realtà è così alta che può esser determinata solo da fatti disumani: dall’orgoglio di essere esemplare unico; di camminare fuori dal binario, controgregge, da randagio».
Data certa del primo significativo esordio, anche se nel curriculum si legge una prima esposizione nell’aprile del 1946, è la mostra personale a Gallarate dove il maestro lecchese, presentandolo agli estimatori con un testo, puntualizzava una precisa linea di condotta. Infatti Morlotti confessava a tutti: «ero venuto via via scartando l’ipotesi si trattasse di una suggestione o di sua pigrizia, o cristallizzazione, o inerzia spirituale e al contrario avevo potuto man mano comprovare che il suo calare, la sua ricchezza umana gli avevano permesso di resistere, di non lasciarsi sopraffare e sconvolgere (come successe alla maggior parte di noi) né dalla dinamica angosciosa e vorticosa del tempo, né dallo sconquasso di miti e di ideologie, né dalle altrui problematiche e conseguenti morfologie».
Questi prodromi hanno certamente una verità perché Vasconi dipinge realizzando una figurazione propria e «non appartiene a nessuno (vogliamo dire a questa o a quella scuola), appartiene a se stesso, è uscito dal caos del dopoguerra senza aver subito quella riforma che le tendenze (o conformistiche e opportunistiche o di maniera) di moda in certi ambienti da bohemien che a Milano, come a Roma, una decina di anni fa’ hanno furoreggiato, creando e travolgendo artisti (pittori, scultori, poeti) tutti pontefici ed apostoli di un caleidoscopio di teorie quasi tutte terminanti in ismo; teorie nate dall’ubriacatura della guerra e dalla malafede dei propri sostenitori».
In quella rassegna Vasconi presentava una successione di opere eseguite dal 1945 al 1957 e La preghiera (pezzo clou della mostra) ha un’intonazione cromatica che tende alle gamme degli scuri con campiture crepuscolari impaginate in un interno perfetto dove gli accostamenti tra i verdi e gli ocra erompono dando un calore umano ai volti in primo piano dei tre uomini di generazioni diverse.
Questa partenza verista, se così la possiamo definire, ha avuto con il trascorrere del tempo una palese metamorfosi nell’ambito cromatico soprattutto per quanto concerne la luminosità dei colori, quasi un’apertura decisa della tavolozza ai colori più smaglianti. Questa motivazione la si recupera soprattutto attraverso le opere esposte nella mostra a Milano alla Galleria delle Ore, la prima mostra nella metropoli lombarda, nel 1961, nel cuore di Brera (a due passi dalle aule che l’avevano visto studente).
Infatti Aldo Rossi sottolinea questa ampiezza col ricordare che «la concezione pessimistica della realtà è alla base della sua pittura, dove la natura e le figure paiono colte nel momento del loro disfacimento organico. Quanto c’è di sgradevole in questa pittura di origine espressionistica è in parte riscattato dall’equilibrio compositivo, mediato fra la fedeltà al figurativo e l’astrazione. Vasconi ci convince maggiormente quando la sua vibrante sensibilità è posta al servizio di una protesta civile, come nel quadro intitolato alla Tragedia di Marcinelle».
Ma questa simbiosi tra astrazione e figurazione viene sottolineata più marcatamente da Mario De Micheli che considera le composizioni di Vasconi erompenti come fosse «un franare silenzioso» con tele «ingombre di forme viventi, dove anche l’emozione del pittore vive sommersa» anche se poi Mario Lepore chiosando la tecnica pittorica la definisce «fatta di luminosità e intonazioni sottili, di figure e di forme cangianti» paragonandola alle composizioni «di aerei soffittisti settecenteschi meridionali».
La chiave di volta che ha reso matura e caratteristica la pittura del nostro artista è da ricercare nell’esperienza di affrescatore e molte sue opere realizzate nel giro di quarant’anni figurano non solo in molte chiese ma pure in importanti edifici pubblici e privativi. Ricordiamo gli interventi nella chiesa di Santa Maria Segreta a Milano (1943); nella Parrocchiale di Baraggia di Viggiù (1948); nella chiesa di Cavagnano (Varese) (1950); nella chiesetta di S. Carlo a Cuasso al Monte (1950); nel Battistero di Cuasso al Piano (1952); nel Battistero della Parrocchiale di Corsico (1958); nella Parrocchiale di Castelnuovo Bormida (1954); nella Parrocchiale di Limito (1956); nel Battistero della Basilica S. Agostino a Milano (1956-57); nella Cappella della stazione centrale di Milano (1957); nella chiesa di Roe di Sedico (1975) e gli affreschi nelle 14 cappelle della Via Crucis a Besano (Varese) (1989).
Il taglio figurale, le forme scomposte e ricomposte con talune frange rinascimentali o michelangiolesche attirano l’attenzione di Carlo Munaril (trovando il plauso di Borgese) nel 1965 per la mostra alla Galleria San Fedele a Milano: «Vasconi appare impegnato in una ricerca di modi figurali ed è già questo un indice della sua consapevolezza di artista che agisce nelle stagioni post-informalista. Egli ha capito che l’uomo, la misura umana, non potevano essere aboliti in un contesto di civiltà come il nostro, e, in pari tempo, che gli antichi schemi convenzionali non erano sufficienti a garantire la comunicazione di nuovi messaggi. Attento alla cultura, pur senza rimanere ad essa supino, Vasconi ha individuato nelle poetiche surrealistiche un possibile punto di aggancio, il tramite linguistico in direzione di quella visionarietà che in lui era presente da sempre. Su questa linea, l’artista ha elaborato, con amore ed anche con cautela, il proprio linguaggio, schivo dai facili consensi, dalle facili polemiche. Ha cercato in se stesso, lentamente, sino a rintracciare le immagini di una complicata storia interiore, i fantasmi poetici ora di un dramma ed ora di una elegia».
Ma lo stesso Munari in precedenza aveva azzardato diversi epigoni e ascendenti sembrandogli ozioso per Franco Vasconi «scomodare Boccioni e il futurismo, o certo surrealismo, od anche un certo Cagli, alla ricerca di una paternità. È piuttosto vero che Vasconi, uomo del nostro tempo, ha filtrato una cultura a lui sicuramente congeniale, e che questa cultura non gli è rimasta allo stato di grumo, di sedimento, ma si è rivelata attiva e stimolante».
Vasconi giustifica questi ascendenti attribuitigli dai critici asserendo che «per quanto riguarda Cagli dissero che probabilmente ero stato influenzato dalla carta spiegazzata e, per quanto riguarda Boccioni e Balla dissero che avevo risentito del movimento futurista. Ti posso assicurare che non vi sono mai stati rapporti di diretta ispirazione con questi maestri».
Il maestro piemontese svela i suoi inizi in modo semplice e sereno: «Ho iniziato con una pittura post-impressionista molto pulita e chiara. L’intenzione allora si limitava alla rappresentazione della realtà e quindi la mia pittura si adeguava a questi intendimenti, nonostante ci fossero già alcuni accenti personali. Nel 1961 ho voluto capovolgere tutto in ossequio alle ricerche che avevo iniziato da tempo e che mi sollecitavano ad un diverso modo espressivo. Sono stato affascinato dalle opere di Morlotti, di Burri e di Fontana. Devo riconoscere che l’esperienza di questi artisti è stata importantissima per me, specie quella di Burri, perché in essa ho trovato il primo stimolo per una ricerca autonoma tesa alla realizzazione di cose nuove più vicine alla mia personalità. Attraverso l’osservazione delle loro opere ho potuto assimilare quella libertà d’espressione che si concretizza in fatti concettuali e naturalistici molto vicini alle mie aspirazioni. Ho cercato quindi di scoprire nella natura quelle forme che evocassero la realtà. In altre parole, in una roccia, in uno scoglio, in un sasso, in uno straccio, si possono vedere forme che trascendono l’oggetto e solo l’invenzione è capace di farle vivere in modo significante».
Vasconi ha una certa predisposizione per rappresentare la figura umana, una dote congenita affinata sui banchi di scuola. Egli ricorda che fece ritratti a quasi tutti i suoi compagni, poi ricopiò con sorprendente abilità i ritratti e le foto dei personaggi più illustri del passato e dei divi del cinema (su incarico di uno strano ciabattino che voleva questi lavori per la sua bottega per arrivare alla perfezione dei ritratti attuali come la serie dedicata a Enzo Ferrari.
Egli afferma con foga: «Quando disegno la figura umana è come se guardassi dentro me stesso, è una sorta di analisi introspettiva. Tutte le cose esterne, dalle montagne al mare, dalle rocce agli alberi, sono delle realtà oggettive che diventano significanti solo attraverso l’interpretazione dell’uomo. È per questo che l’essere umano si trova al centro del mio discorso, in considerazione anche che solo in lui esiste una vera realtà interiore. Il problema è dunque quello di scoprire l’uomo evidenziando tutte le sue prerogative e di inventarlo sulla tela. Le mie opere, se osservi bene, interpretano sempre delle situazioni».
L’enucleazione di questa figurazione gli viene spontanea, tra le pieghe della luce e della tenebra egli trova il giusto tratto del suo dire nell’ambito di un preciso linguaggio artistico e si riconosce nelle forme di Moore come egli stesso afferma: «Quando a Firenze hanno organizzato la mostra di Moore sono stato felicissimo di averla visitata. In quella occasione, pur conoscendo le opere del grande scultore, ho scoperto con intima soddisfazione che Moore aveva eseguito studi su un grosso cranio di elefante. Tali studi naturalmente non avevano come finalità l’analisi anatomica della cavità orale, del naso o degli occhi, ma erano stati condotti per cercare nuove emozioni evocative. In fondo, non è certamente presunzione da parte mia, anch’io avevo orientato la ricerca sulla stessa problematica».
Leonardo Borgese trova nella pittura di Vasconi la derivazione «dal primo cubismo alla Cézanne e dal primo futurismo» e che «la rotta finora seguita dovrà inevitabilmente portarlo davvero nelle secche di un formalismo-astrattismo ormai superato» e gli addita che «se proprio vorrà dare non solo una forma, ma anche un senso alla vita, verso una chiara svolta ad U: cerchi di ricordarsi che può mostrare meglio, oltre le qualità nel colore e nella composizione anche le qualità nella espressione, se non addirittura in una specie di espressionismo».
Vasconi non ammette condizionamenti, non si lascia influenzare dalla critica, continua per la propria strada e dell’uso della tavolozza dei colori egli ha un concetto ben preciso pur ammettendo una palese variante: «La gamma dei colori, rispetto ai primi tempi, non si è arricchita molto. Naturalmente la maturità e l’evoluzione del mio discorso hanno influito anche sul colore che si è liberato da numerosi dubbi ed ha acquisito molte tonalità che in precedenza non rientravano nella mia tavolozza. Guardando i quadri di oggi mi accorgo che formalmente tante cose sono cambiate, ma in fondo la sostanza è rimasta immutata perché i colori di base sono ancora gli stessi».
La pittura di Vasconi è da considerarsi classica e non vi è alcun dubbio sul termine usato pure da Rosa Bianca Bertarelli quando sottende che il classico vasconiano è da interpretarsi «nel senso di misura umana, di assorbimento di un contenuto emozionale, eterno, e sempre valido. E questi eventi capaci di commozione, Vasconi li sa tradurre in termini di linguaggio artistico. Qui interviene la disciplina, la tecnica, la sua perizia compositiva che riunisce in un organismo unitario le immagini, giungendo a un’organica architettura del quadro, in cui si concreta la sua carica poetica e vitale».
Franco Passoni studia da vicino Vasconi e nella primavera del 1967 fornisce una nuova chiave di lettura per la sua arte in progress, inquadrandola nel neo-manierismo ovvero l’identificazione della tecnica con lo stile facendo così emergere «la constatazione di un suo ripiego su una convenzione misteriosa e sotterranea, che sotto il nome di manierismo riaffiora alternativamente nel tempo storico, in modi più o meno evidenti, d’arte occidentale». E ancora riporta il discorso al momento storico primitivo: «A questo proposito il riferimento di Morlotti ai Nadi e al post-impressionismo nei riguardi della pittura di Vasconi, ci sembra assai illuminante».
Per questo vale la pena di ricordare la presentazione del 1961 in cui Morlotti asseriva: «Non so se fosse un convincimento mio, non è che il mondo di Vasconi fosse così unico. C’erano in lui, non i binari alla moda, ma altri binari più vecchi, i Nadi, il postimpressionismo, una luminosità solo fisica, un clima di affetti e di intimità troppo zuccherato, ma una ramificazione sottocutanea mi sembrava preludesse un virile, organico, umano colloquio. E soprattutto mi piaceva il contrasto con il cosidetto proprio tempo, il non accucciarsi al serraglio degli imitatori dello sperimentalismo attuale, e l’ignoranza di imperativi morali di gesti di rifiuti di proteste di disperazioni e angosce esistenziali di tutti quei falsi zafferani, quelle false droghe che sono state il bagaglio di tutti noi, seconda terza quarta generazione. Il repertorio del perfetto eremita che conosce l’orario dei treni».
Questo mondo è stato abbracciato da Vasconi e con questi contenuti senza concedere attimi di tregua al suo lavoro di ricerca ha portato avanti la sua pittura che si mostra sempre in continua evoluzione soprattutto dal punto di vista formale. Angelo Dragone annota un giudizio in pieno Sessantotto in merito all’abbandono da parte di Vasconi dei moduli postcubisti ereditati dalla involontaria vicinanza di Morlotti e constata una ricerca dell’accordo «tra l’uomo e l’universo, in cui sceglie pazientemente segni e colori capaci di far vedere delle figure che potrebbero essere però soltanto le ombre colorate d’un sottobosco».
Pure Passoni aggiorna la sua terminologia e più tardi nel 1970 annota ufficialmente: «Vasconi nel 1959 aveva abbandonato i modi d’un naturalismo di osservazione, che idealmente lo legava a Morlotti, per maturare progressivamente questo suo linguaggio che trasmette la sintesi analitica delle immagini simultanee e multiple, mediate plasticamente e cromaticamente, in uno spazio visionario che appartiene all’uomo e alla sua immaginazione esclusiva: una realtà più occulta, più segreta, però non meno importante dell’altra. Il mondo di Vasconi appare animato dalle visioni delle immagini nell’immagine. Vasconi nella esplicita qualificazione ideale d’un suo spazio comunica un racconto d’incontri, di memorie e presenze molteplici, a volte interferenti oppure fermate in momenti di relativa lucidità: simboleggiate da rocce che si tramutano in teste d’animali, paesaggi allucinanti che fenomenizzano eventi drammatici, nudi sublimati dall’eros e incorporati nelle montagne, nuotatori immersi nelle luci liquide. Si snoda così, innanzi ai nostri occhi meravigliati, un intero alfabeto di simboli e di eventi che animano un universo nato dallo spirito chimerico d’un poeta. Le immagini di Vasconi paiono sempre dissociarsi morbidamente per trasformarsi metamorfologicamente in qualche cosa d’inaspettato e l’unità interiore d’ogni suo dipinto sembra sfuggire alla misura comune delle percezioni. Questo fenomeno ambiguo e affascinante è la conseguenza di uno sfalsamento della realtà attraverso i simboli».
Dino Buzzati trova invece nelle opere di Vasconi «delle figure tutte come rotte, accartocciate, sfaldate, così da assomigliare a rilievi orografici, che si agitano in una luce di crepuscolo. Il loro dinamismo è accentuato da vibrazioni e iterazioni di contorni che si richiamano a certi moduli del simultaneismo futurista. Un temperamento singolare».
Più complesso è il giudizio di Raffaele De Grada che identifica il senso di incertezza «che costituisce lo stato d’animo di fondo di tanti intellettuali onesti di oggi, che rifiutano le certezze burocratiche e borghesi ma non hanno ancora conquistato nuove verità ideologiche. Così nella fluidità poetica delle immagini si ritrova uno spazio per l’esistere».
D’altro canto Roberto Sanesi nel 1972 fissa in termini semantici il tratto di Vasconi pur prendendo coscienza del suo modo precedente di dipingere simile «a un figurativo senza pudori, con il peso di un’esperienza costrittiva com’è quella dell’affresco e della grande dimensione per necessità, a un naturalismo di tono lombardo morlottiano dove puo aver giocato un ruolo marginale l’impazienza soggettiva dell’informale materico. Figure, fiori, accenni di paesaggi ravvicinati con quelle tipiche variazioni d’impasto, con quelle agglomerazioni di terre, di natura, che provengono da una zona cronologicamente precisa e riconoscibile cui non era estranea una sorta di post-impressionismo più o meno rivisitato».
E prendendo in esame la pittura degli anni Sessanta ne approfondisce i contenuti «la natura più vera di Vasconi rimane simbolistica (in senso lato), ha propensioni metamorfiche, vorrebbe essere universalizzante, corre a volte sul filo di una leggera retorica panteistica, può denotare perfino un certo gusto per il surreale, non nell’accezione classica, e senza ironie. Infiltrazioni che si direbbero letterarie, ma in lui marginali, per quel tanto di volontà di comunicare attraverso il simbolo che gli è propria; non per concordanze culturali, o per uso di oggetti già carichi di riferimenti. Le sue letture, per intenderci, includono volentieri lo Zarathustra nietzschiano, William Blake. L’artista è più nativo e diretto, in certo modo semplice, che non premeditato ed intellettuale. Per più di dieci anni, con una tecnica assai raffinata e da qualcuno azzardatamente accostata a quella di un certo periodo di Cagli, nelle opere di Vasconi corpi umani si torcono, si dilatano, si smembrano, si incrociano e si confondono con gli elementi naturali che li circondano, li alludono, perdono la loro fisionomia di personaggi perché se ne accentui la dinamica e ne emergano i valori plastici. E’ la luce che delimita e dà peso alle masse. Anatomia umana, di natura non separata. E i valori plastici tendono a farsi simbolici di una situazione, o di una condizione. Il luogo degli accadimenti sfugge. La stessa titolazione è significativa delle intenzioni. Quando l’artista si libera di ogni pregiudizio rappresentativo raggiunge i momenti più convincenti».
Sempre Sanesi nel 1975 rivedendo le opere di Vasconi preparate per una importante personale nella metropoli lombarda riconferma «le origini lombarde frenate in una strutturazione limpida, l’accostamento a posizioni nelle quali giunge ad assumere valore di fondamento una ricerca plastico-dinamica con vaghe risonanze cubo-futuriste (naturalmente stravolte), la fuga dai compiacimenti tonali a favore di un’accentuazione della presenza figurativa ma senza cedimenti (nel complesso) all’ovvietà della descrizione, la componente visionaria che non rinuncia tuttavia a un dato concreto, reale, spesso perfino implicato in allusioni di cronaca non estranea a prese di posizione dichiaratamente ideologiche. Elementi che nella pittura di Vasconi restano intatti, segno di una matura certezza della propria personalità espressiva».
E continuando in una accurata disamina trova che in Vasconi ogni elemento figurale «assume peso, dimensione plastica, denota la propria origine, e nello stesso tempo si sfalda, si scompone, si astrattizza in fate morgane di panneggi, sviluppi, volute, trasparenze. Una pittura ingannevole, di difficile definizione, tenuta fra l’uno e l’altro versante del vero e del falso, concreta e sfuggente. Ma è proprio questa sua apparente indecisione linguistica a rivelare l’avvenuta costituzione di un linguaggio, è questo scambio di composizioni, scomposizioni e ricomposizioni contemporanee a determinarne la personalità, soprattutto, ora che certe preoccupazioni di racconto troppo scoperto, legato ad una sola dimensione di leggibilità, sono cadute a vantaggio di una rappresentazione più intensa delle strutture. Il simbolo, che resta un dato di fondo del metodo espressivo di Vasconi, acquista più segrete risonanze, così come la luce, che prima delimitava o disegnava le masse per accentuarne l’autonomia da quello che avrebbe potuto essere definito il luogo degli avvenimenti, torna ad entrare nel meccanismo in modo diretto, essendone ormai componente essenziale».
Con il fluire del tempo Passoni si convince dell’excursus e connota delle immagini fluide tra aspetti simultanei, quasi un’identità per un dinamismo cercato e trovato dove le imago di Vasconi «vengono recepite e desunte dai vari aspetti simultanei della nostra realtà e implicano una continua allusione di cronaca, che mediante le condizioni e le evasioni, gli incontri e le presenze, danno luogo a un singolare teatro della coscienza dell’artista nei confronti della contemporaneità… Le sue imago sintetizzano uno spettacolo mentale che è visione della esistenza. Il suo dunque è un continuo confronto critico tra il suo io e i luoghi dell’esperienza e la sua metodologia coniuga sintatticamente una struttura che configura nel suo interno i vari momenti diacronici dello spazio e del tempo. La sua sfera di azione appare dunque complessa e significativa e le imago di Vasconi ci rapportano al variare continuo delle situazioni e delle idee, in favore delle idee stesse per aprire nuove alternative».
A proposito di teatro e scenografia Vasconi afferma che: «la passione per la scenografia l’ho espressa, inconsciamente, nella struttura ambientale di quasi tutte le mie composizioni pittoriche, sia negli affreschi per chiese e nelle pale d’altare, sia nella pittura di cavalletto».
Sanesi nel presentare una mostra personale di Vasconi a Milano ha intuito questa sottesa struttura nella spazialità e nell’inserimento dinamico delle forme. Tre dipinti esposti nella rassegna del 1975 sono intitolati Teatro. È dunque una passione antica che persiste e si rinnova. Sono certo che se Vasconi dovesse eseguire delle scenografie per dei lavori teatrali si occuperebbe di disegnare pure i bozzetti dei costumi dei personaggi che vengono messi in scena.
Domenico Manzella racconta i tentativi di Vasconi nell’ambito teatrale dicendo che questa esperienza è stata sì affrontata, ma «per comprensibili ragioni, non le attribuisce importanza. Nei tempi ormai lontani in cui venne attuata, i mezzi disponibili delle Compagnie che lo interpellarono erano esigui. Si è trattato più di un aiuto amichevole, poiché in quelle Compagnie sua moglie recitava, che non di un lavoro impegnativo. Egli adesso evita la vanità di abbellire un ricordo confidando nella memoria labile di qualche spettatore, e cita dove e per chi i suoi interventi scenografici sono avvenuti: a Viggiù, nel 1946, per una Filodrammatica; a Porto Ceresio, sempre nel Varesotto, nel 1950, quando un’altra Filodrammatica mise in scena La cena delle beffe di Sem Benelli. Ancora: con l’attore Enrico Rame—fratello di Franca Rame—il quale nel 1951 aveva scritto un monologo dalle reminiscenze amletico-grottesche, elaborò l’ambientazione ed eseguì le scene per la recita che avvenne al Teatro Sociale di Porto Ceresio. Fra gli intervenuti c’era Ivo Chiesa, a quel tempo direttore di Sipario e critico teatrale, il quale poi, lasciata la direzione della rivista, è ritornato a Genova per assumere la direzione del Teatro Stabile. Un suo estemporaneo, e si potrebbe definirlo trasversale, ritorno alla scenografia è avvenuto nel 1975, in occasione di quella mostra personale alla Galleria Palmieri. Una telefonata lo ha informato che il pittore Dino Lanaro—con il quale Vasconi non aveva un’assidua frequentazione—l’aveva segnalato ai responsabili dell’Accademia braidense affinché assumesse, per un breve periodo, l’incarico di insegnante di scenografia, in sostituzione del prof. Caneclin, titolare della cattedra; così, per un trimestre, egli insegnò a Brera, con esito lusinghiero considerato che gli allievi di lezione in lezione aumentavano».
Quando in qualità di membro di giuria vidi per la prima volta le opere di Franco Vasconi presentate per concorrere ad un concorso brianteo nel 1975, mi entusiasmai e premiai la sua tela El majoral per la coloristica decisa e la viva invenzione che evocano le tradizioni più originali del Paese.
In seguito nell’estate del 1976 lo invitai ad inaugurare la Civica Pinacoteca all’Aperto di Seregno (una manifestazione collaterale al premio internazionale Seregno/Brianza) realizzando un grande affresco sul frontespizio di piazza Martiri della Libertà dal titolo 1° Maggio/libertà dei popoli.
Vasconi ispirandosi alla piazza ha eseguito ventiquattro metri quadri di affresco quale omaggio alla libertà. La pittura sfaccettata nelle varie angolazioni di luce è la caratteristica pittorica di questo artista piemontese e nel susseguirsi vario della figurazione emerge l’anelito di quella libertà che dovrebbe essere la logica prerogativa di tutti i popoli. Un’opera che alla luce degli eventi del secondo semestre del 1989 ha anticipato la storia, è stata un autentico auspicio per tutti i popoli dell’Europa Orientale.
La pittura di Vasconi è così «lo scorrere e l’alternarsi di stagioni vive e morte, continua l’inafferrabilità, l’inconsequenzialità di questi nostri anni» come ebbe a dire il maestro lecchese—ed a noi fruitori—porta a gustare la visione latente di immaginifiche forme che trovano una celebrazione poetica.
Vasconi ha trovato nella figurazione una evasione di modelli e di sistemi amici, dove infiniti corsi di voci e di colori autonomamente erompono sulla tela. Singolare questa sua pittura a luce sfaccettata—se così la possiamo definire—che sfocia in scatti luminosi subitanei, trovando così una plausibilità di intenti, nell’atmosfera esistenziale—anche se surriscaldata ed eccitata dal consumismo—che talvolta pare apparentemente e pedestremente tranquilla.
L’avvinghiamento, il groviglio, il rotolamento di forme nelle forme, fa della pittura di Vasconi una bagarre fantasiosa nel regno della stessa fantasia bizzarra, dei segni e delle forme, senza però eccedere né cadere nell’inverosimile più assoluto. Una irrefrenabile verve di dire, di narrare, di esprimere anima il subcosciente di Franco Vasconi, materializzando quelle emozioni che non sono altro che visioni inquietanti della nostra condizione umana. La sua pennellata diviene feconda, anche se il più delle volte è decisamente nervosa, e ci fornisce un elaborato che trattiene tutto l’entusiasmo rivoluzionario in seno a questa nuova figurazione, senza però assuefare il fruitore, rendendolo apatico per la ripetizione di quei moduli che sovente e pedestremente si contraggono attraverso l’attuale arte figurativa.
Proprio su questo grande affresco seregnese Giuseppe Marchiori nel 1977 imposta la critica sull’arte di Vasconi: «l’armonia dei colori si fonde soprattutto sulle combinazioni luminose, che si proiettano nello spazio, diviso in sezioni, secondo un’ottica felicemente inventata e che nell’Omaggio alla Libertà assume un particolare rilievo nella trasfigurazione fiammeggiante dell’immagine modulata su gamme vibranti di rossi. È questo il senso preciso della ricerca che ha origine dalla pratica dell’affresco, concepito alla maniera degli antichi nei suoi lineamenti essenziali, ma trasformati nella pittura a olio in motivi irrompenti, con una carica aggressiva appena attenuata dalla luminosità dei limpidi toni».
La pittura quindi di Franco Vasconi ha un linguaggio-dibattito molto eloquente, soprattutto tra le sfaccettature cromatiche—angolazioni di luce diverse—, spesso asimmetrico ma saturo di interesse pittorico, tuttavia sempre suggestivo nei confronti della comune teoria etico-estetica. Questo suo modo di far pittura vuol mettere in evidenza un metodo nuovo di enucleare delle forme—siano queste pastorali o tauromachie—soprattutto in un momento in cui si inizia a fare luce sulle avanguardie in arte.
Dopo la folta partita degli Omaggi e delle Evocazioni, che aveva messo a fuoco i punti più salienti della sua pittura (in particolar modo il periodo influenzato da Morlotti soprattutto nella scelta dei blu e dei verdi), Vasconi sente il bisogno di cogliere il dato attuale per trasferire sulla tela i fatti della quotidianità—anche se con minuziosa indagine—con una aromaticità sgargiante, rendendo il tutto accessibile anche ai profani. Il suo omaggio alla libertà ha la forza di risultare il primo modello formalizzato sia per tecnica che per esecuzione nella descrizione-abbellimento di fatti sociali che coinvolgono appieno la collettività. La collocazione di immagini sfaccettate nello spazio architettonico è il filone dominante nelle opere recenti di questo artista con un’ottica felicemente inventata, giusta l’accezione di Marchiori.
L’interesse per il fantastico richiama alla mente la grande opera affrescata nella piazza seregnese, dove la sortita magica di luci aggallate e nel contempo fagocitate, alimenta l’inquietudine della società votata alla corsa e alla ricerca dell’identità umana scalzante il consumismo dilagante.
Il conflitto fondamentale che alimenta la pittura di Vasconi è palese, egli è dibattuto tra la figurazione e l’astrazione per cui le sue figure, rarefatte come in una sorta di antica rappresentazione dovuta alla consueta tendenza all’accumulo delle immagini (per citare una frase di Sanesi), rappresentano rispettivamente il sentimento razionale ed il cromatismo dinamico talvolta espressi in antitesi.
Le varie tavole eseguite in questi anni Ottanta riportano alla mente l’evoluzione pittorica che riconduce alla stabilità emotiva e maturata dell’autore che talvolta si limita a riprendere antiche forme arcaiche dove è visibile una fuga prospettica e l’allusione claustrale, il tutto rivestito di elementi quotidiani come se Vasconi stesso volesse raccontare avventure e vicissitudini a briglia sciolta.
L’imprevedibilità dell’ispirazione non è carente in queste opere: le narrazioni sono suadenti e raffinate tanto che le pareti assumono d’acchito la foggia di una saga, una sorta di narrazione antologica nell’ambito della tematica pittorica che assurge sempre quale monito chiarificatore nel conflitto interiore e perenne che anima ogni artista.
L’intera produzione di Vasconi appare quindi ben narrata oltre che ben impaginata e anche se talvolta la ricercatezza ne esce un po’ sofisticata, il confronto con l’intimo istinto creativo rivela un’angosciosa visione del mondo che ci circonda e del quale l’autore cerca di dare plausibilità come fosse una verifica ad un’identità che cerca forsennatamente un suo equo equilibrio esistenziale.
E qui ben si inserisce l’intervento di Enzo Fabiani quando sottolinea «questa sua contemporaneità, questo suo essere qui ora, la vedo anche nel suo modo di raccontare: poiché è chiaro che ogni suo quadro, così come ogni sua scultura, è un racconto nel quale confluiscono cielo e terra, vita e sogno, amore e sgomento. Alcuni di questi racconti sono scanditi, hanno una struttura esatta (si pensi alle Architetture), altri hanno un ritmo convulso, altri un andamento che potremmo dire sinfonico, altri sono ossessivi (vengono in mente certe carte stropicciate di Cagli), e così via: sempre però le radici sono nel cuore dell’uomo, nel cuore del tempo, nella linfa della vita della storia o della cronaca».
E il discorso continua a lievitare sul filo del lessico pittorico ed il linguaggio come scrive Sebastiano Grasso «talvolta può anche sembrare indecifrabile. Ma basta sapere attendere un attimo ed ecco che avviene il miracolo. La tecnica non riesce a frenare i sentimenti che esplodono in una sequenza di colori saltellanti come gnomi». Anche Alberico Sala è attratto da Vasconi: «la dialettica, ondulante, o scheggiata, tra figurazione e astrazione, più cromatica che segnica, non smarrisce la memoria naturale, della terra».
Negli anni Ottanta la cromaticità di Vasconi assume un particolare rilievo nella trasfigurazione fiammeggiante dell’immagine, modulata su gamme vibranti di rossi. Vasconi ha sentito il bisogno di ambientare le sue figure in spazi architettonici prestabiliti quale complemento di un impianto pittorico.
Infatti in queste immense architetture, reminiscenze di arte gotica-classica-barocca, le forme e le figure sono in progressione nelle varie sfaccettature, tagliate da sciabolate di luce e di colore, per risolvere l’immobilismo delle emozioni plastiche e porle in sincronia ai bisogni autentici dell’uomo.
Ne consegue che l’opera omnia di Vasconi non risulta estranea allo spazio perché enuclea delle invenzioni architettoniche e tutto questo può essere solo concepito quale risultato estremo di una ricerca cromatica a cui è pervenuto l’artista maturando l’idea con il passare inesorabile del tempo.
Il tentativo di dare così un’impronta peculiare alla pittura, si vedano le successioni esposte delle varie architetture (1-2-3-4), è notevole, e si avverte in modo critico sia per l’alta qualità poetico/cromatica che per i temi sociali del vivere quotidiano, per cui troviamo delle radici ancorate fortemente all’idea di natura (come Risveglio a Venezia) tanto nell’interno della figura/uomo che nell’ambiente in cui vive.
Pertanto questo allacciamento di Vasconi al naturale evidenzia il gusto sano di un’arte destinata a coinvolgere soprattutto l’uomo di tutti i giorni e fa aggallare senza dubbio alcuno quella nuova tensione dell’architettura—sia pur nell’ambito di un interno— anche per quanto concerne l’arredo della tela con figure e vegetazioni e per ritornare alle parole di Marchiori, Vasconi racchiude il mistero di una genesi di forme fluttuanti nello spazio.
Marcello Venturoli nel 1988 evidenzia «un’esplicitazione nell’acuta grafia a capello, ma accompagnata da un tono e da una materia corallini, soffusi di un aureo lume; e quante belle licenze poetiche di vera pittura e fantasia si prende questo quadro d’occasione, il bianco inafferrabile tra luce e spuma, il dividersi e il dilatarsi, dentro un’acqua leggera come un’aria, delle membra delle bagnanti, l’armonia dei corpi che appare come sotto una lente e balena reale e irreale. Il pittore ama molto le spiagge della Sardegna dove si reca ogni estate: ma quest’isola è per lui un immenso habitat per la presentazione delle sue creature: sui corpi splendidi delle compagne dell’uomo si specchia la natura».
Così Franco Vasconi continua a dipingere con piglio allusivo tutti i temi a lui cari, tant’è vero che Clara Masotti aggiunge che questa pittura «si svolge in composizioni cromatiche complesse, a metà tra arte figurativa e astrazione. Le forme si inseriscono in un gioco continuo di luci ed ombre, in un campo che non sembra avere delimitazioni nette, dove volti, corpi, paesaggi, animali, pur essendo rappresentati nella loro specificità, rimangono comunque misteriosi, indiretti, allusivi. L’uno sfuma nell’altro, il primo si completa nel secondo, così attraverso uno scambio continuo di forme e di volumi si crea dinamismo e, insieme, la rappresentazione dialettica di astratto e di concetto, di allusivo e dichiarato, di arte e realtà».
Una realtà celebrata che ha accenti grafici nuovi tanto è vero che la serie delle opere di Vasconi che illustrano l’antologia del Premio «Lodi città di Ada Negri» del 1989 fanno parte della saga Nuova figurazione.
Una figurazione che si accosta alla poesia lapidaria di Antonello Trombadori (tanto per citare solo il primo premio) ma anche agli altri segnalati e che come scrive Alberico Sala nella prefazione del volume «vuol sensibilizzare insieme i valori della poesia e dell’arte».
Franco Cajani (1991)